Tema sulla povertà in Italia

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    Tema sulla povertà in Italia

    Pensavamo di essere diventati una nazione ricca e potente. Dopo il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta e l'ottimismo rampante degli anni Ottanta, noi italiani scopriamo, nel secondo decennio del nuovo secolo, di essere in realtà un paese a forte rischio povertà. Facciamo improvvisamente i conti con quella miseria che avevamo conosciuto in epoche neppure troppo remote e che abbiamo lungamente tentato di esorcizzare, aiutati, nella costruzione di questa nostra illusione, dalle televisioni che, con i loro programmi di intrattenimento e gli onnipresenti spot commerciali, ci hanno rimandato di continuo l'immagine di un Paese dai consumi sofisticati ed opulenti.

    Purtroppo le statistiche Istat sono impietose. Nel 2012 8,6 milioni di italiani hanno subito gravi deprivazioni economiche, hanno cioè avuto difficoltà a riscaldare le proprie case, a nutrirsi in modo adeguato e ad andare in vacanza. E altri 14,9 milioni di nostri connazionali si avviano a diventare poveri.

    In pratica, almeno due famiglie su quattro faticano ad arrivare alla fine del mese e sono in grave difficoltà ad affrontare una spesa imprevista. Un minore su quattro è a rischio povertà. Questo mentre il 10% degli italiani possiede il 50% della ricchezza nazionale.

    L'Italia si avvia a diventare uno dei Paesi più diseguali del mondo, in cui la forbice di reddito e di ricchezza tra chi ha e il resto della popolazione si è allargata di più negli ultimi decenni. Un dato negativo, che rischia di mettere in serio pericolo persino la democrazia.

    Il lavoro è diventato precario, il welfare, ossia la spesa sociale a vantaggio dei più deboli, è stato progressivamente eroso da scelte politiche discutibili. I diritti stessi e le tutele per i lavoratori sono stati progressivamente ridotti.

    Tutto questo ha origine grosso modo a partire dalla crisi finanziaria che nel 2007 ha colpito gli Stai Uniti e che dal 2008 ha contagiato tutto il mondo, comprese le economie europee, conducendole forse alla più grave crisi che il sistema capitalista abbia conosciuto nella propria storia.

    L'economia, anziché reggersi sulla produzione di beni, merci e servizi, si basa oggi sulla finanza. L'eccessiva e irresponsabile finanziarizzazione dell'economia ha fatto sì che nel volgere di pochi decenni, l'insieme delle transazioni finanziarie produca ormai un giro d'affari che supera di quindici volte l'intero Pil mondiale. L'economia, come impazzita, è diventata principalmente un'economia di carta, cessando di essere un'economia produttiva.

    Così, anziché alimentare il circuito produttivo, la ricchezza attualmente si indirizza verso la speculazione finanziaria, che garantisce maggiori guadagni.

    L'Unione europea, a causa delle divisioni interne e di una fragilità istituzionale spaventosa, non ha saputo reagire alla mutata congiuntura, caratterizzata da un'abnorme finanziarizzazione e dall'emergere sulla scena internazionale di nuove potenze economiche (Brasile, Cina, India, ecc.).

    La crisi italiana si innesta in questo difficile scenario mondiale portando tutte le peculiarità degli atavici problemi della nazione, che risalgono a molti decenni, forse secoli, prima dell'attuale crisi economica mondiale. Spesa pubblica improduttiva con sprechi inimmaginabili, debito pubblico stellare, giustizia lenta e farraginosa, paralisi burocratica, immobilismo politico, privilegi e rendite di posizione di ogni tipo, assenza di meritocrazia, incapacità di innovare e competere, individualismo e familismo amorale, evasione fiscale, corruzione, economia mafiosa che domina intere regioni sono i problemi non certo nuovi del Bel Paese, cui la classe dirigente non ha saputo, o voluto, negli anni trovare una adeguata soluzione.

    Problemi da tempo conosciti, nodi irrisolti che la crisi economica internazionale ha aggravato e portato al pettine.

    A farne le spese sono, in Italia, soprattutto i giovani, che fino a trenta quarant'anni sono esclusi dalla vita produttiva o sono relegati ai margini con contratti a termine, che si sono rivelati, in molti casi, delle vere e proprie forme di sfruttamento illecito ai limiti dello schiavismo.

    Ma la crisi e la povertà, quando non colpiscono direttamente, minacciano ormai tutti: operai, impiegati, professionisti, manager. Proletari, ceto medio e imprenditori. Nove italiani su dieci stanno peggio oggi di una decina di anni fa.

    Una povertà che non ha risvolti soltanto materiali, ma anche psicologici: insicurezza, ansia, stress, timore di non mantenere lo status sociale raggiunto, paura del futuro.

    In questo scenario di imprese che chiudono, salari bassi, licenziamenti, disperazione collettiva e diseguaglianze enormi e insopportabili urge trovare correttivi. Compito cui sembrano accingersi i vari governi della Repubblica che si succedono a Palzzo Chigi, ma che si scontra (quando non alimenta) con furbizie, veti incrociati, manovre attendiste delle lobby e delle caste che dal mantenimento dello status quo ritengono di trarre vantaggio.

    Di certo, un Paese civile dovrebbe lottare contro le diseguaglianze. Impegnandosi, a livello internazionale, in una politica di tassazione delle rendite finanziarie, scovando e tassando quelle ricchezze spesso detenute illegalmente da molti italiani all'estero e mettendo un tetto alle retribuzioni scandalosamente elevate, cominciando almeno dai manager pubblici. Negli Stati Uniti, ad esempio, vige la consuetudine che il Presidente non debba guadagnare più di 25 volte lo stipendio del lavoratore dell'amministrazione peggio pagato. E se ciò è ritenuto congruo dalla prima potenza economica e militare del mondo, non vedo perché non lo possa essere da noi.

    Inoltre occorre investire nel capitale umano, in formazione, ricerca e innovazione di processi e prodotti. La produttività italiana è in costante calo, perché intorpidita dall' incapacità di ripensarsi e rinnovarsi dell'intera macchina produttiva. La nostra economia non deve cercare di competere a livello mondiale in quelle produzioni a basso valore aggiunto con i Paesi in via di sviluppo, che possono permettersi una manodopera a basso costo. Deve puntare su produzioni innovative di qualità, dove giovani con alta scolarità potrebbero dare un contributo decisivo. Dobbiamo cercare di sviluppare un'economia basata sulla conoscenza.

    Bisognerebbe investire in quei settori, come ad esempio la sanità, suscettibili di trasformazione e di impiego nei prossimi decenni. L'invecchiamento della popolazione potrebbe trasformarsi, con i nuovi bisogni che ingenera, in un'opportunità per organizzare un'assistenza sanitaria di qualità, con la capacità di creare buoni posti di lavoro.
    Così il patrimonio artistico e paesaggistico di immenso valore nel nostro Paese potrebbe costituire, se valorizzato e sfruttato a dovere, un volano per tutta l'economia.

    La stessa maggiore attenzione culturale per l'ecologia, il benessere, il clima e l'ambiente, potrebbe portare allo sviluppo di un'economia "verde" di grande valore, in termini di utilità, risparmio energetico, qualità della vita e creazione di posti di lavoro ad alta qualificazione.

    "Viviamo con la testa nel mondo fantasmagorico del consumo opulento, abbiamo aspettative da consumatori ricchi" - ha scritto un noto sociologo - , "ma poggiamo i piedi, e tutto il corpo, sulla linea di galleggiamento". Viviamo, insomma, ormai, sulla soglia della povertà. Per svegliarci da questo incubo abbiamo bisogno, non di nuovi populismi o nuove demagogie, ma di politica "buona", che faccia propri i valori, prima ancora umani che costituzionali, dell'interesse generale, dei diritti delle persone, dell'uguaglianza, del benessere e della sostenibilità ambientale.

    Riferimenti bibliografici:

    Penelope, N., Ricchi e poveri, Milano, Ponte alle Grazie, 2012
    Pianta, M., Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti più male di 10 anni fa, Bari-Roma, Laterza, 2012
    Revelli, M., Poveri, noi, Torino, Einaudi, 2010

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