Tema sulla pena di morte

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    Tema sulla pena di morte

    Quando ci giunge notizia di un delitto efferato, l'uccisione di un bambino, una strage di civili inermi o comunque l'omicidio volontario di una vittima innocente, la nostra prima reazione è emotiva: avvertiamo un impulso alla vendetta, un odio profondo verso l'assassino, che sfocia ben presto nell'intenso desiderio di vedere al più presto l'omicida morto egli stesso.
    Si tratta di una spinta istintiva, iscritta probabilmente nel codice genetico della nostra specie. Non a caso, società più antiche della nostra avevano concepito la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente.
    Ma non sono soltanto l'odio e il rancore a guidarci verso questa prima reazione istintiva; si tratta anche di una sete di giustizia, che soltanto la morte dell'assassino sembra placare.
    Sentiamo che non c'è pena commisurata alla morte di un innocente che la morte del colpevole.
    Se esaminiamo tuttavia la questione non alla luce dell'istinto, bensì a freddo, razionalmente, le nostre convinzioni vacillano. Non siamo più così sicuri che spetti a noi, intesi come collettività o stato, comminare la morte di chicchessia, fosse pure il criminale più refrattario.

    Il dibattito sulla pena di morte è, quindi, ben lontano dall'essersi esaurito. Persino all'interno delle società contemporanee, anche in quelle più ricche e avanzate, tale dibattito è di estrema attualità.
    E non sono finora emersi argomenti definitivi, tanto meno dimostrazioni fondate scientificamente, né a favore dei fautori né a favore degli abolizionisti.

    Al contrario di quanto si crede comunemente, stando almeno a quanto si legge sulla stampa nazionale, la tradizione del pensiero occidentale è stata, per secoli, favorevole alla pena di morte. Non solo era favorevole alla pena capitale il Platone delle Leggi, ma lo erano, in epoche a noi molto vicine, giganti del pensiero del calibro di Kant, Hegel e Schopenhauer.
    Nella tradizione occidentale, l'avversione alla pena di morte comincia a farsi consistente con l'avvento dell'Illuminismo ed è italiano il paladino più agguerrito della causa abolizionista, quel Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, tenuto in grande considerazione nientemeno che da Voltaire.
    Le argomentazioni che adducono gli oppositori della pena di morte è che essa non costituisce un deterrente efficace nei confronti dei crimini più gravi, che nella prevenzione del crimine costituiscono misure più valide pene alternative quali l'ergastolo o comunque una lunga detenzione e che, soprattutto, conta più la certezza della pena che il suo rigore.
    Senza contare che, a causa di errori giudiziari, ipotesi da tenere sempre bene in considerazione, potrebbe essere giustiziato un innocente.
    I fautori della condanna capitale sostengono che il sangue si lava col sangue, che la morte è il castigo adeguato per i criminali più sanguinari e che la pena di morte aiuta la prevenzione del crimine, rendendo più sicura la vita dei cittadini virtuosi.

    Di fatto, negli stati con più illustre tradizione giuridica, anche laddove esista ancora la pena di morte, si tende a rimandare l'esecuzione, quando non a sospenderla, commutando la pena capitale in ergastolo e, comunque, si va facendo sempre più ristretto l'elenco dei crimini che richiedono la messa a morte del reo.
    L'esecuzione stessa tende ad essere emendata da tutti quegli elementi "addizionali", messi in essere al fine di renderla il più atroce, severa ed esemplare possibile, autentici supplizi cui venivano sottoposti a lungo i condannati a morte, come è documentato peraltro in letteratura (si legga in proposito Sorvegliare e punire, saggio dello studioso francese Michel Foucault).

    Personalmente ritengo che alla coscienza raziocinante dell'uomo occidentale contemporaneo ormai ripugni il ricorso all'uccisione legalizzata di un suo simile. Passi la legittima difesa del singolo, minacciato di morte, ma che sia lo stato a eliminare fisicamente gli individui urta la mia sensibilità e soggettività di cittadino.
    Il comandamento "non uccidere" è fortemente impresso nella mia coscienza e si oppone alla naturale aspirazione alla vendetta. La reclusione prolungata, la privazione della libertà, mi sembrano misure sufficienti per far espiare al colpevole il suo delitto. Inoltre, come fa notare il filosofo Norberto Bobbio, la violenza chiama violenza, rischiando di alimentare una pericolosa spirale.
    Nessuno poi può escludere a priori, sebbene, mi rendo conto, in talune circostanze appaia un'ipotesi piuttosto remota, che il colpevole si ravveda e possa rientrare a far parte della comunità. Ogni uomo partecipa della nostra stessa natura, non ci è mai totalmente estraneo.
    Condivido dunque la riflessione dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, uno che scampò miracolosamente in extremis alla pena di morte che gli era stata comminata dal tribunale che lo aveva giudicato. Nel suo romanzo più ispirato, L'idiota, il protagonista dice: "Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L'assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell'assassinio brigantesco".

    Riferimenti bibliografici
    Beccaria C., Dei delitti e delle pene. Consulte criminali, Milano, Garzanti, 2003
    Bobbio N., Contro la pena di morte. In L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 2005
    Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2005
    Turow S., Punizione suprema. Una riflessione sulla pena di morte, Milano, Mondadori, 2005
    Veronesi, S., Occhio per occhio. La pena di morte in 4 storie, Milano, Bompiani, 2006



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    Edited by Student World - 18/12/2013, 15:42
     
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